Cittadinanza italiana, stretta sullo “ius sanguinis”: cosa cambia con il limite alle due generazioni

L’Italia ha deciso di cambiare rotta. Dopo anni in cui ha riconosciuto la cittadinanza a milioni di discendenti di italiani sparsi per il mondo, ora arriva una stretta significativa: d’ora in avanti, solo chi ha un padre o un nonno nato in Italia potrà presentare domanda per ottenere il passaporto italiano.

Il nuovo decreto segna un cambio radicale nel modo in cui il Paese gestisce il legame con la sua diaspora. Una scelta che fa discutere, divide, e solleva interrogativi profondi: chi ha davvero diritto a dirsi italiano?

Da diritto ereditario a percorso selettivo

Per anni, lo ius sanguinis è stato interpretato in modo estensivo. Era sufficiente dimostrare una linea genealogica ininterrotta da un antenato italiano per richiedere la cittadinanza, anche se quel legame risaliva a più di un secolo prima. Ora le regole cambiano: si restringe il cerchio, si alzano i criteri, si cerca un modello più controllato. Ma a quale prezzo?

Il contesto politico e sociale che ha portato al cambiamento

Dietro la riforma ci sono tensioni politiche, necessità amministrative e una crescente pressione sociale. Con le richieste in costante aumento, i consolati e i Comuni erano al collasso. A questo si aggiungono i timori per possibili abusi, come le residenze fittizie e l’uso opportunistico del passaporto europeo. Il governo ha risposto con fermezza, ma la diaspora non ha preso bene questa “porta che si chiude”.

Cos’è lo “ius sanguinis” e perché è così importante

La base del sistema italiano di cittadinanza

Lo ius sanguinis – diritto di sangue – è il principio su cui si basa storicamente la cittadinanza italiana. Significa che è cittadino italiano chi nasce da genitori italiani, anche se all’estero. È una visione identitaria forte, che lega la cittadinanza alla genealogia e non al territorio (ius soli). Per decenni, ha permesso agli emigrati e ai loro discendenti di sentirsi ancora parte dell’Italia, anche da lontano.

Le origini storiche del principio del sangue

Questo principio ha radici nell’Unità d’Italia. Con milioni di italiani costretti a emigrare, la legge garantiva che il legame con la patria non si spezzasse. Era un modo per preservare l’italianità e trasmetterla oltre le frontiere. Negli anni, questo legame si è rafforzato con norme che permettevano anche ai discendenti di richiedere il riconoscimento formale della cittadinanza, creando una delle leggi più aperte al mondo in termini di discendenza.

Come funzionava prima la cittadinanza per discendenza

La possibilità di risalire anche a trisnonni

Fino al decreto attuale, non c’era un limite generazionale fisso. Bastava dimostrare una discendenza ininterrotta da un cittadino italiano nato dopo il 1861 – anno dell’Unità – e dimostrare che nessuno degli antenati avesse mai rinunciato formalmente alla cittadinanza. Questo significava che anche chi aveva un trisnonno italiano poteva, con pazienza e documentazione, ottenere il passaporto tricolore.

Un’opportunità per milioni di oriundi italiani nel mondo

In paesi come Brasile, Argentina, Stati Uniti e Uruguay, esistono milioni di persone che si identificano ancora come italo-discendenti. Per loro, richiedere la cittadinanza era una forma di riconnessione con le proprie radici. Ma era anche un’opportunità concreta: accesso alla libera circolazione in Europa, migliori opportunità lavorative, un sistema sanitario più accessibile. Questo ha portato a un boom di richieste, trasformando lo ius sanguinis in un fenomeno globale.

Cosa prevede il nuovo decreto

Solo due generazioni: padre o nonno nati in Italia

Il cuore della riforma è il limite generazionale: d’ora in avanti, si potrà chiedere la cittadinanza per discendenza solo se almeno uno dei propri genitori o nonni è nato in Italia. Questo esclude automaticamente chi ha radici più lontane, come bisnonni o trisnonni, anche se ha documenti perfetti e un legame culturale evidente. Una scelta netta, pensata per semplificare e restringere il numero di pratiche.

Altri vincoli aggiuntivi: lingua, documentazione, tempi

Ma non è tutto: il decreto introduce anche criteri aggiuntivi. È richiesta una conoscenza minima della lingua italiana (livello B1), una residenza anagrafica documentata per almeno 12 mesi per chi fa domanda in Italia, e una verifica più stringente dei documenti, con legalizzazioni più complesse e traduzioni giurate obbligatorie. I tempi medi per ottenere una risposta potrebbero allungarsi, ma con meno domande da gestire, si spera in un miglioramento dell’efficienza.

Le reazioni della diaspora italiana all’estero

Rabbia, delusione e senso di esclusione

Le prime reazioni delle comunità italiane all’estero sono state forti. Molti hanno parlato di “tradimento”, altri di “umiliazione”. Chi aveva investito tempo, soldi ed energie per ricostruire il proprio albero genealogico, ora si ritrova escluso da un giorno all’altro. Le proteste sono partite soprattutto dal Sud America, dove il legame con l’Italia è fortissimo, anche a distanza di cinque generazioni.

Le storie di chi aveva già iniziato il processo

Centinaia di migliaia di domande già avviate rischiano di essere respinte o congelate. Ci sono famiglie intere che stavano pianificando un futuro in Italia, giovani che avevano studiato la lingua e risparmiato per il viaggio, persone che avevano acquistato casa o investito in aziende italiane. Tutto ora è in sospeso. Le associazioni di italo-discendenti stanno preparando ricorsi e appelli legali, mentre montano le polemiche.

I motivi del governo per la stretta

Dietro la decisione del governo italiano di restringere l’accesso alla cittadinanza per discendenza si nascondono ragioni complesse, che mescolano necessità pratiche, scelte ideologiche e una certa pressione mediatica.

Limitare gli abusi e snellire il sistema

Uno dei principali obiettivi della riforma è il contenimento degli abusi. Negli ultimi anni, l’Italia ha assistito a un’impennata di richieste di cittadinanza basate su documentazioni genealogiche costruite in modo poco trasparente. In alcuni casi, si sono verificate residenze fittizie, pratiche truccate, e interi “viaggi organizzati per diventare italiani” in tempi record. Inoltre, il sistema amministrativo italiano – già fragile – non era in grado di sostenere una mole di richieste in continuo aumento. Consolati paralizzati, Comuni sovraccarichi, tempistiche di oltre 24 mesi per una risposta: la situazione era diventata insostenibile.

Proteggere l’integrità e il valore della cittadinanza

Il secondo motivo, meno tecnico ma più simbolico, è legato alla volontà di preservare il valore della cittadinanza italiana. Per alcuni politici, riconoscere la cittadinanza a chi non ha mai vissuto in Italia, non parla la lingua e non conosce la cultura significa svuotare il concetto stesso di “appartenenza nazionale”. Secondo questa visione, il passaporto non può essere solo un legame di sangue, ma deve rappresentare anche un impegno concreto verso la società italiana.

Il peso storico e morale dell’esclusione

Se le ragioni del governo possono avere una loro logica interna, è altrettanto vero che la riforma solleva questioni etiche profonde. Quando si limita l’accesso alla cittadinanza per chi ha radici familiari italiane, si rischia di recidere legami secolari che rappresentano una parte fondamentale della nostra storia nazionale.

Cancellare le radici per motivi burocratici

L’Italia è stata per decenni un Paese di emigranti. Milioni di persone hanno lasciato il Sud, le isole, le campagne, per cercare fortuna in Brasile, Argentina, Venezuela, Uruguay, Stati Uniti. Quelle persone hanno mantenuto vivo il legame con l’Italia, spesso in condizioni difficili. Hanno insegnato ai figli l’amore per il Paese d’origine, hanno conservato i cognomi, la lingua, le tradizioni. Negare la cittadinanza ai loro discendenti equivale – per molti – a un atto di cancellazione storica, un’amnesia istituzionale.

Il rischio di perdere una rete globale di “italiani nel cuore”

La cittadinanza italiana non è solo un fatto giuridico: è anche uno strumento di soft power, una forma di diplomazia culturale. Milioni di oriundi in tutto il mondo fanno da ponte tra l’Italia e i Paesi ospitanti. Sono turisti affezionati, investitori, ambasciatori spontanei. Escluderli significa rinunciare a una rete globale di sostegno, simpatia e influenza positiva. Un’occasione che molti ritengono sprecata.

Le implicazioni economiche e sociali

Oltre all’aspetto affettivo e storico, la riforma della cittadinanza ha anche ripercussioni concrete sull’economia e sulla società italiana, in particolare su alcuni territori.

Il colpo al business della cittadinanza

Negli ultimi dieci anni si è sviluppata un’intera economia legata al riconoscimento della cittadinanza: studi legali, traduttori, alberghi, guide genealogiche, consulenti amministrativi. Molti piccoli comuni del Sud Italia hanno tratto beneficio dalla presenza di richiedenti: case in affitto, negozi che lavorano, servizi che ripartono. Il decreto rischia di azzerare tutto questo. Alcuni sindaci parlano apertamente di “danno collaterale” e chiedono soluzioni alternative per non perdere quel flusso economico.

Le ripercussioni sui Comuni e le regioni coinvolte

Comuni come Campobello di Mazara, Castelfranco, Grottole o Agnone – solo per citarne alcuni – hanno vissuto una vera e propria rinascita grazie all’arrivo di brasiliani, argentini, venezuelani venuti per stabilirsi e completare la procedura di cittadinanza. Alcuni hanno deciso di restare, comprando casa e aprendo attività. Ora, il rischio è che questi centri tornino al declino demografico e all’abbandono.

Verso un modello misto: sangue + cultura?

Di fronte a una riforma tanto drastica, si fa sempre più strada l’idea di un modello alternativo, che non rinunci del tutto allo ius sanguinis, ma lo integri con criteri culturali e identitari.

Le proposte per un approccio più equilibrato

Alcuni esperti propongono un sistema a punteggio: si tiene conto del grado di parentela con l’antenato italiano, ma anche della conoscenza della lingua, della residenza in Italia, della partecipazione a programmi culturali. Un altro modello potrebbe essere l’ottenimento della cittadinanza dopo un percorso formativo e di integrazione, con esame finale e soggiorno obbligatorio. Questo permetterebbe di premiare chi ha davvero interesse a far parte della comunità italiana.

Il ruolo della lingua, della residenza e della volontà

Molti concordano sul fatto che non basta avere un bisnonno italiano per essere cittadini. Ma escludere a priori chi ha mantenuto viva l’italianità per generazioni appare troppo rigido. La soluzione potrebbe essere trovare un compromesso: chi è disposto a investire tempo, studio e vita in Italia dovrebbe avere una strada aperta. Anche se il legame di sangue è più lontano.

Chi può dirsi italiano, oggi?

Il dibattito sulla cittadinanza italiana per discendenza ha riportato alla luce una questione antica quanto attuale: che cosa significa essere italiani? Basta il sangue? Serve la lingua? È necessaria la residenza? O si tratta di un mix profondo di cultura, memoria, appartenenza emotiva?

Un’identità da proteggere… o da condividere

Per alcuni, la cittadinanza è un valore da proteggere, limitandola a chi ha legami forti e recenti con il territorio. Per altri, è un’eredità da condividere con chi, pur lontano, ha conservato vivo il legame con l’Italia. In entrambi i casi, è chiaro che il concetto di italianità non può più essere ridotto a un criterio puramente burocratico. Servono nuove regole, ma anche una visione più ampia e moderna dell’identità nazionale.

La sfida di essere italiani in un mondo globale

Viviamo in un’epoca in cui i confini si fanno più porosi, le identità più ibride, le appartenenze più complesse. L’Italia, con la sua storia di emigrazione e diaspora, ha l’occasione unica di ripensare il concetto di cittadinanza non come barriera, ma come ponte tra le generazioni, i continenti e le culture. La vera sfida non è chiudere le porte, ma decidere chi siamo e chi vogliamo essere nel mondo.

Domande frequenti sul nuovo limite alla cittadinanza italiana per sangue

  1. Posso ancora richiedere la cittadinanza se ho un bisnonno italiano?
    Con le nuove regole, no. Il decreto stabilisce che la cittadinanza per discendenza è riconosciuta solo se si ha un genitore o un nonno nato in Italia.
  2. E se avevo già avviato la pratica con i documenti pronti?
    Le domande già presentate potrebbero essere riesaminate. Alcune saranno accettate se ancora in fase istruttoria, ma non c’è una garanzia. È consigliabile contattare il consolato o un legale specializzato.
  3. Ci sono eccezioni alla nuova regola delle due generazioni?
    Al momento no, ma si parla di possibili modifiche per chi dimostra un legame culturale concreto con l’Italia. Progetti pilota potrebbero essere introdotti in futuro.
  4. È possibile ottenere la cittadinanza per altri motivi oltre alla discendenza?
    Sì, è possibile ottenerla per matrimonio con cittadino italiano, per residenza prolungata in Italia (naturalizzazione), o per meriti speciali riconosciuti dallo Stato.
  5. Dove posso trovare assistenza per valutare il mio caso specifico?
    Puoi rivolgerti a un avvocato esperto in cittadinanza italiana, ai patronati italiani all’estero, o consultare i siti ufficiali del Ministero degli Affari Esteri e degli Interni.

 

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